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Guidati dalle emozioni

Come rendere la nostra comunicazione efficace e persuasiva

Lo sapevi che il 90% delle decisioni di acquisto è guidato dalle emozioni? E che l’efficacia della comunicazione è data per più del 90% da elementi non verbali?

Per aiutarci a raccontare l’affascinante mondo della neurocomunicazione, abbiamo fatto qualche domanda a Silvia Margoni, consulente e formatrice in ambito neuroscientifico con più di dieci anni di esperienza nel neuromarketing e fondatrice della società Links4Brain.

Comunicazione emozionale vs. comunicazione razionale: è vero che siamo meno analitici di quanto pensiamo?

Molte persone pensano di essere razionali, convinte di mettere il freddo calcolo davanti alle emozioni nelle loro vite quotidiane. È un’opinione davvero comune.
Riprendendo un famoso esperimento dell’Università del Texas però, in cui veniva proposto di scegliere tra due alimenti, uno visivamente accattivante e l’altro no, la maggior parte delle persone è portata a scegliere il primo a prescindere dall’informazione fornita (salutare vs. gustoso, o gustoso vs. salutare ad esempio).

È la razionalità a farti scegliere? No, è stata un’emozione ben precisa: il disgusto.
Già, le emozioni non sono “cose per femminucce”, bensì reazioni fisico-chimiche misurabili del nostro sistema nervoso date sia da fattori esogeni (sento un forte rumore, provo paura) sia endogeni (ossia autoprodotte).

Autoprodotte?

Esattamente, come quando la sera nel letto prima di addormentarci pensiamo alle mille scadenze da rispettare sul lavoro: il battito cardiaco aumenta, iniziamo a respirare più velocemente, ci sentiamo ansiosi e l'adrenalina e il cortisolo non ci permettono di addormentarci. E non riuscendo ad addormentarci, ci innervosiamo, peggiorando la situazione.
Numerosi studi* hanno ormai dimostrato come buona parte delle nostre azioni è determinata da emozioni. Sembra incredibile, ma è così.
Il sistema limbico è un’area profonda del nostro cervello correlata alle emozioni e re-agisce molto velocemente rispetto all’ambiente esterno per permetterci di sopravvivere. Se si materializzasse davanti a noi improvvisamente un dinosauro avremmo più probabilità di salvare la pelle scattando verso una via di fuga o riflettendo sul senso della vita?
Il sistema limbico viene chiamato da Kahneman (psicologo premio Nobel per l’economia) System 1, la modalità automatica del nostro cervello che non lavora per programmazione bensì opera in fretta e automaticamente, con poco o nessuno sforzo e nessun senso di controllo volontario.
Al contrario, il System 2 (corrispondente agli strati di neo corteccia ed in particolari i lobi frontali) indirizza l’attenzione verso le attività mentali impegnative che richiedono focalizzazione, come i calcoli complessi, l’immaginazione di scenari, lo humor, la parola e così via.
Ma il System 2 “brucia” molta energia, mentre il System 1 opera come la funzione di risparmio energetico del nostro smartphone. Funzione che il nostro cervello privilegia per permetterci di sopravvivere.
Tornando alla domanda iniziale, una comunicazione emozionale è una comunicazione che parla con i nostri pensieri veloci e non ragionati, inducendoci in maniera diretta all’azione e sì, siamo molto poco razionali!

La comunicazione è fatta anche da immagini. Come possiamo fare in modo che le nostre foto performino meglio? Esiste un visual più efficace di altri?

Innanzitutto dobbiamo tenere a mente che non esiste un visual efficace in ogni contesto, così come la comunicazione stessa, per essere efficace, deve necessariamente adattarsi alle circostanze. Lo stesso messaggio rivolto allo stesso identico interlocutore potrebbe differire di molto a seconda del luogo in cui lo veicoliamo (es: essere più dettagliato o più conciso, con un tono più vivace o sommesso). Ecco perché, in alcuni specifici settori, una foto “funzionale” di un prodotto tecnico può risultare più efficace rispetto ad una versione “emozionale”.
In linea generale, però, ci sono delle regole che possiamo seguire: un’immagine deve prima di tutto cogliere la nostra attenzione (verificabile ad esempio attraverso un test di eye tracking) per poi suscitare desiderio all’azione tramite il rilascio di un neurotrasmettitore chiamato dopamina.

Come attirare l’attenzione?
Attraverso una o più di queste modalità:

  • I volti umani piacciono agli umani - il nostro occhio si muove istintivamente verso le facce e il nostro cervello ha addirittura un’area cerebrale deputata al riconoscimento dei volti (la corteccia fusiforme);
  • Contrasto percettivo, ossia utilizzando colori che vengano notati nel loro contesto;

  • Facendolo strano! Per via di un bias cognitivo chiamato effetto Von Restorff, tendiamo a notare e memorizzare meglio ciò che è strano e inusuale.

Ok, il nostro interlocutore ci ha notati! E ora?
Ora dobbiamo conoscere le sue “leve motivazionali”: COSA lo muove. Quali sono i problemi che lo affliggono, le preoccupazioni che vorrebbe evitare? Perché dovrebbe aver bisogno di noi? Più siamo in grado di comprenderlo e vivere sulla nostra pelle le sue difficoltà (pain) più saremo in grado di identificare e capire come comunicare il vantaggio che otterrà dalla nostra soluzione (gain).
Se parliamo di visual correlati a vendite di prodotti, un’ottima strategia è data dal rappresentare vividamente il sollievo dato dalla soluzione proposta ed enfatizzare gli aspetti emozionali vissuti in quello specifico momento dal nostro interlocutore (Timore? Entusiasmo? Ansia?). Quanto più riuscirà ad immedesimarsi nel nostro visual tramite l’azione dei neuroni specchio e della fluidità cognitiva, tanto più il suo cervello sarà propenso a passare all’azione di acquisto.

Come facciamo a risultare “affidabili” attraverso la nostra comunicazione?

C’è una molecola (un ormone, per la precisione) strettamente correlata all’affidabilità: l’ossitocina. Chi ha figli probabilmente ne ha sentito parlare per via del suo coinvolgimento nelle fasi di travaglio e di allattamento, ma pochi sanno che il ruolo dell’ossitocina è così importante per l’uomo da permettere la sopravvivenza della nostra specie. Proprio così!
Al contrario di altri animali, quando nasciamo non siamo in grado di badare a noi stessi - alcuni di noi faticano addirittura dopo 30 anni! - ecco quindi che il rilascio di ossitocina favorisce l’attaccamento tra mamma e neonato garantendoci un rifugio sicuro!
Il rilascio del cosiddetto “ormone dell’amore”, oltre ad indurre una serie di modificazioni al nostro sistema nervoso, favorisce la fiducia reciproca predisponendoci a legami di fedeltà.
Ma torniamo alla domanda: come risultare affidabili?
Ciò che sappiamo dagli esperimenti di Paul Zak è che quanta più fiducia viene riposta in noi, tanta più ossitocina rilasciamo e tanto più siamo propensi a ricambiare questa fiducia. Si tratta sostanzialmente di un meccanismo biologico basato sulla necessità di creare legami di gruppo stabili. Detto in altre parole, se diamo credito al nostro interlocutore, questo ci reputerà a sua volta maggiormente affidabili.
Ma il vero trucco per essere affidabili è uno e uno soltanto: essere DAVVERO persone affidabili, assicurandoci di verificare e approfondire con il nostro interlocutore su quali siano le sue aspettative concrete.

Sappiamo che anche nella comunicazione esistono dei bias cognitivi. Possiamo parlare di quelli più classici e di come possono influenzare i nostri giudizi?

I bias cognitivi (o pregiudizi cognitivi) sono meccanismi che influenzano le nostre percezioni e credenze, distorcendole e rendendoci irrazionali nelle scelte, nei comportamenti e nei giudizi che compiamo ogni giorno. Esistono centinaia di bias cognitivi, quelli più conosciuti sono relativi ai principi di persuasione approfonditamente studiati da Robert Cialdini e pubblicati per la prima volta nel 1984: bandwagon effect, authority bias, scarcity bias ecc.
Oltre a questi, un potentissimo pregiudizio che opera nella comunicazione è l’effetto priming, che consiste in tutte le associazioni immediate ed inconsce che sorgono quando entriamo in contatto con un qualsiasi stimolo. Se ti chiedessi di nominare una bevanda gassata di color marrone probabilmente risponderesti “Coca Cola”, influenzato dalla forza con cui questa associazione è stata consolidata nel tempo nel tuo cervello.


L’effetto priming è correlato al funzionamento della nostra memoria; quando facciamo un’esperienza per la prima volta nella nostra vita diamo un’etichetta (positiva/ negativa o neutra) a questa esperienza e cerchiamo di collegarla ad altri stimoli già conosciuti. Questo collegamento neurale, all’inizio, è come un sentiero inesplorato in montagna. Ma quanto più lo percorriamo, tanto più somiglia ad un’autostrada ben pavimentata: la Coca Cola ne è un esempio, il nostro cervello la richiama facilmente.

E tutto questo che effetti apporta nella comunicazione?

Il priming spiega, ad esempio, perché i packaging marroni e verdi ci fanno percepire un prodotto più naturale, permettendoci un premium price, o perché una persona “a pelle” non ci stia particolarmente simpatica (probabilmente ci ricorda inconsciamente qualcuno con cui abbiamo avuto esperienze poco piacevoli).
Un bias “classico” ma (forse) meno conosciuto è il cosiddetto “effetto esposizione” di cui parla anche Kahneman nel suo best seller “Pensieri lenti e veloci”: quanto più veniamo a contatto con un elemento in maniera ripetuta nel tempo, tanto più ci suona “familiare”. Questa familiarità, che si traduce in fluidità cognitiva, viene tradotta (erroneamente) dal nostro cervello come possibilità di fidarci di quel dato stimolo.

Cosa significa in parole povere?

Che tenderemo a scegliere più facilmente un prodotto, una pubblicità o semplicemente un volto perché lo abbiamo visto più volte. Basta questo a renderlo migliore? A voi la scelta!
 

Abbiamo parlato di visual, ora tocca al linguaggio. Ci sveli qualche neurotip per rendere i copy più persuasivi?

Un copy “persuasivo” è un testo che incrementa la fluidità di processo, ossia la facilità con cui un’informazione viene processata. Questa abilità può essere potenziata attraverso diverse modalità, ma un copy “che funziona” deve prima di tutto avere due caratteristiche:


    1.    COSA DICIAMO: dobbiamo entrare nei panni del nostro interlocutore, vivere la vita dal suo punto di vista. Il contenuto del nostro discorso deve necessariamente essere correlato ai suoi interessi; partendo dai suoi obiettivi, il nostro compito è quello di identificare il suo pain (il suo problema) ed enfatizzare il suo gain (il vantaggio che gli possiamo portare).


    2.    COME LO DICIAMO: analizziamo il punto di vista del nostro interlocutore per scegliere le parole più efficaci («il rapinatore entrò in banca» o «il rapinatore venne in banca»?); qual è il suo profilo psicologico?; quali sono le leve emozionali che lo spingono all’azione?

Fun fact: quando la nostra comunicazione viene percepita come inutilmente complessa, i nostri interlocutori ci considerano meno intelligenti. Curioso, no?
In sostanza, quando abbiamo difficoltà ad elaborare un contenuto scritto, il nostro cervello prova un’emozione negativa. E questa negatività viene erroneamente attribuita al contenuto che stiamo leggendo.


Quali neurotips applicare dunque ai nostri copy per renderli facilmente comprensibili? Meglio evitare:

    •    Frasi al negativo. Che succede se ti chiedo di NON pensare ad un elefante coi pois rosa? Il nostro cervello non riesce ad elaborare velocemente le negazioni!
    •    Molte frasi subordinate, perché danno un senso di poca praticità e determinazione;
    •    Frasi al passivo. Meglio rendere il soggetto un protagonista in cui immedesimarsi più facilmente.

E per potenziare i nostri copy? Incrementiamo la fluidità cognitiva attraverso immagini mentali concrete e/o metafore che aiutano concretamente a generare un maggior impatto emotivo!



*per approfondire, v. Zaltman, Professore all’Harvard Business School 

Riassuntone dei link utili

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Il suo sito  www.links4brain.com

 

 

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